martedì 13 ottobre 2015

Studio Azzurro e il sogno interattivo dello spettatore

Quando ho cominciato a interessarmi a quel che si chiamava videoarte, per me e gli altri-altre, Studio Azzurro era la pietra di paragone per comprendere qualsivoglia esperienza di arte interattiva. Si tratta certo dei videoartisti italiani più famosi degli anni ’90 e forse non solo.

E’ strano vedere quanto poco si trovi su Studio Azzurro in Wikipedia, quante poche siano le visite ai video inseriti in Youtube, rispetto a quelle di altri autori dall' irrisorio, a confronto, valore storico e artistico.
Ma non si può dimenticare l’impatto che ebbero opere come il Nuotatore o i famigerati Tavoli, grazie anche alla capacità degli autori di creare relazioni e ottenere una meritata notorietà.
Il collettivo sta inoltre vivendo una nuova primavera con installazioni inedite e con festeggiativi peri ventennali delle installazioni più famose.
 

Studio Azzurro nacque nel 1982 fondato da Rosa, Cirifino e Sangiorgi, rispettivamente un videoartista, un fotografo e un grafico a cui si aggiunsero poi Roveda e altri. Come si vede dalle foto di gruppo sul sito ufficiale, si è sempre comportato come collettivo, numeroso e aperto, questo aspetto credo faccia onore ai membri fondatori.
La ricerca del gruppo disegna un percorso “trasversale alle discipline tradizionali”, implementando video, teatro, danza. E’ stato scritto che l’idea di uomo espressa da Studio Azzurro “si annulla nella luce e nell’ombra,  cerca di uscire dalla sua gabbia senza riuscirci mai, e senza essere capace di far entrare il ‘visitatore’ nel suo mondo virtuale, alienante, magico” (http://sdz.aiap.it/notizie/7430).

Per definire la cifra estetica del marchio Studio Azzurro credo che dobbiamo cercarla nell’immagine video, nei suoi fattori originali. Mi è capitato spesso di ripensare alle figure di Tavoli, perché queste mani mi toccano. Lasciamo perdere un attimo la “qualità” dell’interattività. In questa ed altre opere si incontrano figure sospese tra realtà e sogno, semplici incontaminate ma nello stesso tempo enigmatiche, proprio come si usava considerare l’immagine elettronica (vedi post precedente) che Amaducci definiva non a caso, “fluttuante”.
Forse è in questo fenomeno onirico la fortuna della “cifra” di Studio Azzurro: la loro fusione con la trasversalità del sogno, svolta qui con grande stile ma anche coerenza. Essi e le loro figure divennero il “manifesto vivente” della videoart italiana.


Non c’è titubanza nel riconoscere questa qualità estatica in quasi tutte le opere del collettivo, perfino in episodi di semi fiction come il Mnemonista o in senso contrario in installazioni tecnologiche come le Traiettorie celesti.
La forza di questi videoartisti fu la semplicità nel mostrare figure che erano allegorie della stessa immagine elettronica che le conteneva. Come nei video di Dove va tutta ‘sta gente? Le figure erano e, sembrano ancora più a rivederle oggi che tutto sa di obsolescenza, “prigioniere delle propria libertà”. Non “rigidamente libere” come quelle di un film. Erano fluttuanti, invece che vaganti!
Perfino quando, nei video di Studio Azzurro, esiste la parola parlata e la declamazione, non ho mai l’impressione che mi sia permesso l’ accesso, di cogliere a pieno l’impossibile, realtà, di queste figure.



Indubbiamente: più complesso è il caso degli spettacoli di teatro e teatro-danza dove il video può avere un ruolo importante ma, il conteso resta quello della classica percezione del teatro e quindi l’aspettativa è altrettanto classica.
Pittaluga e Valentini scrivono: “Molte domande attraversano i testi, in particolare: l’uso di dispositivi tecnologici ha narcotizzato o amplificato la dimensione teatrale? Una drammaturgia che ha come dispositivo costruttivo le nuove tecnologie è stata in grado di reinventare il medium teatro?" (vedi)

Difficile rispondere a domande del genere portate in primo piano dall’opera di questi e altri video-artisti. Ma l’intuizione di una “narcotizzazione del meccanismo teatrale” può invece dar risposta ai dubbi sulla definizione “videoarte”.
Basta forse, anche in questo caso, intendere il “cambio di posizione” e di “equilibrio” come psicologico prima ancor che materialistico. Pertanto il sogno della visione cinematografica è portato al suo estremo e si fa “narcolessia” e il suo meccanismo è risolto dalla tecnologia video con i suoi fattori taciti.
L’interattività tecnologica-materialistica delle installazioni che viene raccontata a volte come “maggiore possibilità di azione” nei confronti del media cinematografico, sembra infatti l’espressione poetica di una prigionia strutturata, capace di irretire lo stesso visitatore in uno schema rigido, degno dell’essere di un fantasma.

E l’immagine resta notevolmente fetale, gravida di altro da sè.


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